L’aggiunta di zucchero ai prodotti in commercio è pratica antica e ben conosciuta. Per motivi diversi, un tempo soprattutto per la conservazione (lo zucchero, oltre una certa concentrazione, impedisce lo sviluppo di muffe e batteri), oggi probabilmente anche per “arrotondare” il sapore e renderlo accettabile e suadente, nonostante l’impiego di materie prime spesso di non eccelsa qualità. Di fatto, con l’aumentare costante dell’utilizzo di cibi conservati e lavorati dall’industria alimentare, nell’ultimo secolo il consumo di zucchero è andato aumentando in maniera spropositata. Dai tre chili all’anno di mio nonno Gino, muratore, guerra di Libia nel 1911, suonatore di piatti nella banda del paese, fino ai circa trenta chili che ogni italiano attualmente consuma mediamente in dodici mesi. Un aumento spropositato, che costringe a fare i conti anche con le patologie favorite da questo squilibrio nutrizionale, principalmente (ma non solo) obesità, diabete, malattie cardiovascolari, tumori. Che fare, dunque? Prima di tutto, leggere attentamente le etichette e evitare gli alimenti che contengono dolcificanti. Tuttavia, lo zucchero non sembra essere tutto. Secondo uno studio pubblicato su The Lancet Planetary Health (Volume 2, No. 7, e301–e312, July 2018), esiste una stretta relazione tra diabete di tipo 2 e l’inquinamento ambientale. Gli autori ritengono che l’inquinamento atmosferico sia responsabile ogni anno di oltre 3 milioni di nuovi casi di diabete nel mondo. No allo zucchero, dunque, ma contemporaneamente sì all’aria pulita (e ai comportamenti, anche individuali, che aiutano a raggiungere questo obiettivo).
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